Nel 1966 fece il suo esordio nella trasmissione televisiva Scala Reale abbinata alla Lotteria Italia e condotta da Peppino De Filippo il personaggio di Pappagone, interpretato dallo stesso De Filippo utilizzando come spalla Gianni Agus.
Pappagone era un cuoco bonario, pasticcione e piuttosto ingenuo e piaceva moltissimo a noi bambini al punto che sulla scia del successo del personaggio, che De Filippo riprese anche nella popolare trasmissione radiofonica Gran Varietà, ne fecero addirittura un fumetto.
Di Pappagone divennero famose alcune espressioni, che oggi definiremmo tormentoni, fra cui Eqquequa!, con cui si presentava, la carta d’indindirindà (carta d’identità) e soprattutto la domanda che spesso rivolgeva: siamo vincoli o sparpagliati?
Un comparto sparpagliato
Quando Alessandri25 era ancora nella sua lunghissima fase di gestazione non avevo la più pallida idea di come comportarmi in un mondo complesso come quello della filiera del cibo: non solo come mi sarei presentato ai miei futuri clienti, ma soprattutto come relazionarmi con i miei colleghi cuochi, con le aziende da cui avrei dovuto rifornirmi, con i media.
A farmi da guida, in modo affettuoso e disinteressato, fu Fabrizio Fazzi (che solo a parlarne al passato provoca una fitta al cuore) il quale aveva una sua precisa idea, rispettosa ed inclusiva, di relazionarsi e di coltivare alleanze ed amicizie con tutti gli attori della filiera del cibo di qualità pur essendo in qualche modo di parte perché comunque aveva un suo prodotto da commercializzare.
Fabrizio, alla domanda di Pappagone, avrebbe risposto: «siamo sparpagliati, ma se fossimo vincoli sarebbe meglio».
Credo non ci sia un comparto più complesso e variegato di quello del cibo che va dalle aziende di produzione di nicchia a quelle che producono cibo di massa a prezzi ridottissimi, dai ristoranti stellati ai piccoli laboratori come Alessandri25.
In questo comparto, che vede protagonista la grande distribuzione che assorbe in media l’80% del mercato agroalimentare, il cibo di qualità, nelle sue diverse declinazioni, occupa ancora posizioni di rincalzo, se non di vera a propria nicchia, e l’erosione inflattiva della capacità di spesa determinata da una serie di fattori interni ed esterni non potrà che aumentare il numero dei consumatori che, pur volendo, non potranno accedere più a questo tipo di consumo.
La reazione dialogante al nuovo cibo: in fondo, perché non provare?
Di fronte alle nuove sfide che sta lanciando il commercio internazionale, e mi riferisco principalmente al nuovo cibo, quello fatto in laboratorio e prodotto a livello industriale, le farine d’insetti e altre strepitose novità destinate, nel lungo periodo a cambiare completamente il volto dell’alimentazione, come sta reagendo il comparto dei cibo?
È ovviamente ancora presto per parlarne perché la massiccia campagna lanciata dalle multinazionali per convincere masse di consumatori che tutto sommato gl’insetti non sono così ripugnanti perché ridotti in farina neppure si vedono e che sono sacrifici che bisogna fare per la sopravvivenza del Pianeta che non sarebbe più in grado di sostenere la produzione di cibo autentico e tradizionale, è solo alle battute iniziali.
Si va dal rifiuto a prescindere, a cui personalmente mi ascrivo, a posizioni più dialoganti in cui si affaccia una domanda: in fondo, perché non provare?
Posizioni legittime che si fondano su di un dato storico indiscutibile: dal burro, ora considerato un alimento comune, ma che i Romani ritenevano ripugnante perché per loro era un cosmetico (come mangiare la Foille per intenderci) ai cibi asiatici, passando per i prodotti importati dai Conquistadores (pomodori e patate su tutti) prima guardati con diffidenza se non con aperta ostilità ed ora entrati nella nostra dieta quotidiana, la nostra cucina tradizionale, nel suo conservatorismo di fondo, ha sempre finito con l’assimilare nuovi alimenti e nuovi gusti.
Del resto non si tratterebbe di veri e propri cibi, cosa che personalmente riterrei preferibile, ma di inserire questi nuovi ingredienti in alimenti che già consumiamo come i prodotti da forno.
In realtà la mia ostilità nasce proprio da questo dato perché avrei accettato di più se mi avessero proposto insetti ed ortotteri come nuove pietanze, e non sto scherzando.
In fondo tra i crostacei e gli ortotteri non c’è una differenza così marcata del punto di vista dell’aspetto ed il principale elemento che li differenza è l’habitat, marino nel primo caso e terricolo il secondo. Taluni ortotteri sono addirittura menzionati dei testi sacri come animali commestibili, a differenza del maiale per dire.
A quel punto, non essendo in discussione la non tossicità che è stata valutata a monte dagli enti preposti, si tratterebbe solo di una questione di gusti: come per il «quinto quarto» che qualcuno considera una squisitezza e a me personalmente, con limitate eccezioni, non piace.
Quello che suscita la mia avversione, e ne ho già diffusamente parlato qua, è proprio la pretesa di integrare questi nuovi ingredienti nella nostra cucina finendo, gioco forza, per sostituirli ad altri, come i cereali.
Quanto è grande un allevamento di grilli?
Si prospetta una nuova rivoluzione del cibo simile a quella che ha visto alcuni prodotti, in tempi passati dominanti nell’alimentazione quotidiana, come la segale o il miglio ed in misura minore il farro, finire ai margini se non scomparire quasi completamente.
Solo che in questo caso, a differenza dei precedenti, non si tratterebbe di normale avvicendamento agricolo, fisiologico nella millenaria storia dell’alimentazione umana, ma di sostituire i prodotti della terra con altri che sono nati e non potranno che svilupparsi solo a livello industriale (dubito fortemente che vedremo allevamenti di ortotteri allo stato brado) con dimensioni di tutto rispetto.
Pare infatti che per produrre un chilo di farina di grillo occorrano 20 mila grilli (fonte: La Stampa del 2 gennaio 2018 «Un allevamento di grilli per produrre la farina») il che equivale a 2 milioni di grilli per quintale (al netto del tasso di sopravvivenza) diciamo pure quasi 2 milioni e mezzo per quintale, ma credo sia difficile se non impossibile che un’azienda produca solo un quintale l’anno di farina e quindi possiamo almeno moltiplicare il dato per 100 o 1000 il che fa rispettivamente 250 milioni o 2 miliardi e mezzo di grilli per impianto: animali onnivori che dovranno pur essere nutriti in qualche modo, presumo con foraggi appositi.
Non ho idea di quanto rumore possano fare due miliardi di grilli tutti assieme, ma dubito fortemente che sia il sottofondo romantico invocato da Rugantino («li mejo grilli pe’ fa cri cri…») per sedurre Rosetta ed anche a prescindere da questo, e dalla terrificante prospettiva di una fuga di massa dei grilli per un incidente, resta il fatto che si tratterebbe, appunto, di cibo industriale e solo industriale.
Siamo destinati quindi a veder migrare la produzione del cibo dall’agricoltura e dalla zootecnia all’industria?
È questo il modello di sviluppo del settore alimentare che vogliamo?
Personalmente ritengo la questione della farina di grillo un «ballon d’essai», un banco di prova per vedere quanto i consumatori siano disposti ad accettare, partendo da una cosa ripugnante come gli ortotteri o gl’insetti (che probabilmente avranno una produzione ed un mercato limitati) in termini d’industrializzazione del cibo che per alcuni prodotti di largo consumo è già una realtà.
Un cibo in cui tutta la filiera (dagli allevamenti alle coltivazioni idroponiche passando per il cibo sintetico, dalla preparazione al confezionamento robotizzati) si esaurirà in ambito industriale e che verrà comodamente consegnato a casa, ordinato direttamente da frigoriferi guidati dall’Intelligenza Artificiale, da droni telecomandati.
Un cibo disumano, nel senso letterale del termine, e disumanizzato, privo di cultura e di valore.
Di fronte a questa prospettiva, che oggi possiamo considerare remota, ma in fondo anche la digitalizzazione era considerata remota ancora quarant’anni fa, come sta reagendo il comparto del cibo tradizionale e quello di qualità in particolare?
In ordine sparso, come quasi sempre accade.
Torna allora la domanda di Pappagone.
Cari amici del cibo di qualità: siamo vincoli o sparpagliati?