L’Italia con le sue 270 tonnellate di cibo sprecato è il peggior Stato Europeo negli ultimi vent’anni.
Ad affermarlo è uno studio del JRC, il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea.
Secondo questo studio, gran parte dello spreco, ben il 68%, si deve al consumatore finale.
Ma cosa s’intende per spreco alimentare?
Secondo il nostro Ministero della Salute, che ne riprende la definizione dal Waste Watcher International Observatory, lo spreco alimentare è definibile come «l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati al consumo umano, sono destinati ad essere eliminati o smaltiti».
Le stesse fonti, a loro volta, distinguono questo spreco in: evitabile (cibo e bevande finiti in spazzatura ma ancora edibili, come pezzi di pane, mele, carne, ecc.); possibilmente evitabile (cibo e bevande che alcune persone consumano, per esempio le croste del pane, e altre persone no; ma anche il cibo che può essere consumato se cucinato, per esempio la buccia di patate); inevitabile (ossi di carne, bucce d’uovo, d’ananas ecc.).
A sua volta lo studio del JRC distingue tra: pre-consumer waste, lo spreco alimentare che viene a formarsi prima della vendita e post-consumer waste: ossia lo spreco dopo la vendita da parte del consumatore finale.
I dati, obiettivamente allarmanti, parlano, solo per l’Italia di uno spreco medio annuo (dati 2021) di 67 kg/abitante.
Le azioni proposte per ridurre tale spreco s’incentrano principalmente, se non esclusivamente, sul consumatore finale, sui suoi stili di vita e di consumo, sulla sua sensibilità nei riguardi del problema in generale e delle sue ricadute sull’ambiente, sull’economia, sugli squilibri socio-economici mondiali visto che se c’è una parte della popolazione mondiale in cui lo spreco è fisiologico, c’è un’altra parte della popolazione che non ha accesso ad una quantità sufficiente di cibo: la Fao ha stimato per il 2020 tra i 720 e gli 811 milioni il numero di persone denutrite nel mondo, mentre ben 2,37 miliardi di persone non hanno accesso ad un cibo adeguato.
Malgrado questa ricchezza di studi internazionali due domande fondamentali restano, a mio parere, sostanzialmente inevase:
a) perché noi occidentali, ma in generale noi abitanti dei Paesi ricchi, sprechiamo tanto cibo?
b) se i Paesi ricchi azzerassero lo spreco alimentare ciò porterebbe automaticamente alla risoluzione della crisi alimentare mondiale come automatico travaso tra cibo in eccesso e cibo insufficiente?
Credo che una risposta, per quanto affrettata ed inevitabilmente parziale, alla prima domanda si possa trovare nel fatto che dal secondo dopoguerra in poi il cibo in alcuni Paesi ricchi si è trasformato da bene primario ad oggetto di consumo.
Questa trasformazione ha inciso ed incide profondamente su tutta la filiera.
I produttori, al cospetto di beni che devono essere semplicemente consumati e che hanno via via visto diminuire, in taluni casi praticamente azzerarsi, i loro valore intrinseco, da un lato hanno privilegiato (e spesso sono stati costretti a farlo semplicemente per sopravvivere) la produzione di quegli alimenti che hanno maggiore resa e minore durata, dall’altro sono costretti, talvolta loro malgrado, a scartare a priori tutta una parte di cibo (dalle erbe spontanee ai pesci di minor pregio, dai tagli di carne meno pregiati sino alle diverse varietà di vegetali), che per ragioni eminentemente pratiche (maggiori spese, insufficiente remunerazione del prodotto finale, difficoltà di vendita) non risultano economicamente attraenti.
Il risultato, particolarmente evidente nel comparto agricolo, è che ci sono di fatto due mercati paralleli: uno, minoritario, che spreca obiettivamente meno, ma si rivolge ad una fascia molto ristretta, quasi elitaria, di popolazione, ed uno prettamente industriale che trova vantaggioso per mille motivi l’acquisto compulsivo e lo spreco.
In questa dinamica paradossalmente i ricchi, cioè le persone che hanno maggiori risorse, anche culturali, maggiore tempo da dedicare agli acquisti e alla preparazione del cibo e non devono costantemente inseguire le offerte speciali che spesso, oltre a riferirsi ad un cibo di minore qualità intrinseca, investono prodotti di minor durata (si pensi solo all’effimera durata del pane industriale), sprecano meno delle persone meno abbienti.
La perdita di sapienza anche da parte delle persone con minori risorse economiche e che quindi in teoria dovrebbero fare acquisti più oculati e che costantemente si registra (ed è destinata ad aumentare) nella scelta del cibo da acquistare è dovuta non solo ad una sorta di salto generazionale, che pure ha la sua importanza, ma in gran parte alla frettolosità di chi non ha sufficiente tempo (perché le sue energie sono impiegate in altre priorità) per scegliere e preparare il cibo.
Dalla risposta alla prima domanda deriva quasi automaticamente quella alla seconda.
Lo spreco del cibo, secondo la mia personale lettura, non è altro che la conseguenza, forse più visibile di altre, di un modello di sviluppo di cui è parte integrante ed in qualche misura motore economico.
Non vi è alcuna possibilità quindi allo stato attuale delle cose e del commercio globale di realizzare l’eliminazione o quantomeno l’attenuazione del gap alimentare di miliardi di persone nel Mondo attraverso una riduzione dello spreco alimentare nei Paesi ricchi.
È assai più probabile, invece, che le politiche incentrate solo sui consumatori di modifica delle abitudini alimentari dei Paesi ricchi in senso virtuoso incidano negativamente sui regimi alimentari delle popolazioni meno abbienti: si pensi solo alla controversa questione della produzione della Quinoa, divenuta in Occidente, per le sue indubbie virtù, un prodotto talmente di successo da spingere i Paesi produttori alla sua quasi totale esportazione riducendo, conseguentemente, le risorse alimentari delle popolazioni autoctone.