C’è una cucina che probabilmente è la più difficile da inquadrare, sia dal punto di vista storico che gastronomico, eppure è ricca di suggestioni e racconta, forse più di tante analisi sociologiche, il variegato percorso dei popoli nel Mondo per assicurare la propria sopravvivenza.
È la cucina dei migranti.
Un fenomeno che si perde nella notte dei tempi ed al quale andrebbe dedicata forse più attenzione.
L’Italia ne è stata involontaria protagonista diventando di volta in volta e a seconda delle epoche e delle condizioni politiche e socio-economiche, destinazione e base di partenza dei fenomeni migratori.
L’immigrazione in Italia in epoca contemporanea e quella dei migranti italiani
Andando a ritroso nel tempo troviamo, innanzitutto, l’immigrazione degli stranieri in Italia in epoca contemporanea, un fenomeno iniziato alla fine degli anni ’70 e che per ragioni demografiche e geopolitiche è sicuramente destinato ad aumentare.
In direzione opposta è il fenomeno migratorio italiano, soprattutto oltreoceano, iniziato praticamente con l’Unità d’Italia e ripreso, con connotati diversi, nei primi anni del secondo dopoguerra.
Immigrati ed invasori
Risalendo fino all’antichità e considerando, per analogia, immigrazione anche l’afflusso di popolazioni straniere al seguito delle varie forme di invasione, vi è la duplice spinta da Sud delle popolazioni del nord-Africa e da Nord dei cosiddetti barbari.
Ancora più indietro nel tempo, sino ad arrivare all’epoca romana e preromana, la diaspora ebraica e le colonie greche.
Tutti questi eventi hanno lasciato un segno anche dal punto di vista culinario sia per l’ingresso di prodotti e coltivazioni nuove, si pensi solo all’olio di oliva portato dai greci ed a quello che ha innescato nei secoli in Italia soprattutto nel centro-sud, sia per le inevitabili contaminazioni tra tradizioni culinarie con la creazione di preparazioni completamente nuove e quindi non riferibili né a quelle originarie, né a quelle locali.
Se la nostra cucina è così variegata e complessa lo dobbiamo in gran parte a queste contaminazioni.
Le fasi della cucina della migrazione
La cucina dei migranti conosce, sostanzialmente, tre fasi che si ripetono pressoché costantemente.
La prima ha per protagonisti i primi arrivati che vedono nella preparazione dei piatti dei loro paesi di origine un mezzo per mantenere un legame con la madrepatria, per rendere un po’ meno amaro il pane della celeberrima canzone di Libero Bovio Lacreme napulitane.
Preparazione che tuttavia deve fare i conti con la difficoltà di reperimento dei prodotti originari e costringe ad adattamenti con ciò che si trova sul posto: i Padri Pellegrini approdati in America con il Mayflower ne sono l’esempio più noto ed i piatti, ormai divenuti tradizionali, del Thanksgiving Day rappresentano in modo emblematico questa necessità di adattamento.
La seconda è legata alla naturale vocazione della preparazione del cibo domestico a convertirsi in mestiere e commercio, con la progressiva proliferazione, inizialmente a beneficio dei propri connazionali, ma poi anche per gli abitanti del paese ospitante, di varie forme di ristorazione o di para-ristorazione: in questa fase diventa più marcato, per ampliare la clientela locale, l’adattamento delle preparazioni originarie al gusto ed alle preferenze degli ospitanti accentuando l’uso degli ingredienti locali scelti, per lo più, per similarità, come nella Wedding soup italoamericana, versione locale della minestra maritata partenopea in cui la cicoria e la carne di maiale sono sostituite, rispettivamente, da spinaci e pollo.
Un altro indice di adattamento che finisce con lo snaturare i piatti originari, è l’appropriazione, per ragioni di puro richiamo commerciale, dei nomi delle ricette più rinomate dei paesi di provenienza, come il ragù alla bolognese, la stessa pizza, la carbonara, nelle quali, tuttavia, vengono inseriti altri ingredienti che ne disvelano l’artificiosità e questo spiega l’abuso di aglio, origano e prezzemolo, tipici delle tradizioni del nostro meridione da cui proviene la maggioranza degli italoamericani, in ricette che in Italia non li prevedono.
Infine, col succedersi delle generazioni e l’accentuazione dell’integrazione, si realizza la vera cucina della migrazione, quella che ha perduto gran parte del rapporto con quella di provenienza, non è completamente omologata alla cucina del paese ospitante ed assume caratteri di originalità che non la rendono completamente sovrapponibile, se non nel gusto ed in alcuni ingredienti-base, a quella dei paesi di riferimento: è la cucina definita «etnica».
I piatti etnici
Noi italiani siamo particolarmente intransigenti quando si parla di cucina italiana, soprattutto all’estero.
Ognuno di noi si sarà lamentato almeno una volta degli spaghetti scotti (come nella celeberrima scena del Checco Zalone del film Quo vado?) del caffè troppo lungo, della panna nella carbonara e delle diverse violenze culinarie fatte ai nostri piatti dai pronipoti dei nostri migranti o da coloro che a diverso titolo propongono all’estero la nostra cucina.
Piatti come gli spaghetti and meatballs, gli spaghetti con le enormi polpette o la pepperoni pizza, con una varietà di salame leggermente piccante fatto negli Stati Uniti e in Canada con carne di maiale e di manzo, creati dalle comunità italoamericane e diffusissimi negli Stati Uniti ed in Canada dove sono scambiati per autenticamente italiani al punto da essere poi cercati dai turisti nei loro viaggi in Italia, sono considerati da noi sacrileghi.
La nostra, tuttavia, non è la sola cucina oggetto di contaminazioni da parte dei discendenti dei migranti originari.
Il riso alla cantonese o gli involtini primavera sono assai diversi dai corrispondenti piatti originari e lo stesso accade per la cucina africana, per quella indiana: adattate, pur mantenedo alcuni elementi caratterizzanti, al nostro gusto europeo e ai nostri ingredienti.
La cucina della diaspora ebraica
La cucina dei migranti di gran lunga più complessa, articolata e storicamente consolidata è certamente quella della diaspora ebraica che a Roma ha preso il nome di cucina ebraico-romanesca finendo per rappresentare un filone, probabilmente il più antico, della cucina romanesca.
In linea generale la cucina della diaspora ebraica si presenta come un compromesso tra il rigoroso rispetto dei principi religiosi (che si sintetizzano nel termine Casher), le continue restrizioni e vessazioni cui sono stati sottoposti gli ebrei della diaspora nei paesi ospitanti e la necessità di mantenere un forte carattere identitario soprattutto in occasione delle diverse festività religiose.
Il risultato è una cucina complessa, particolarmente ricca che tuttavia si presenta a sé stante rispetto a quella della moderna Israele e finisce per essere addirittura dominante tanta è la sua ricchezza.
Una cucina che invece di essere strumento di separazione diviene una formidabile occasione di dialogo e di integrazione pur nel rispetto delle rispettive identità.
Ogni romano sa che se vuole gustare i migliori carciofi alla giudia, il più buon baccalà fritto pastellato, i più gustosi aliciotti con l’indivia, solo per indicare i piatti più noti, deve recarsi nei ristoranti e nelle taverne del cosiddetto ghetto a ridosso del Tempio Maggiore e del Portico d’Ottavia a poche centinaia di metri dal Campidoglio.
E lo stesso accade per i piatti della comunità livornese o di quella veneziana.
Caso straordinario ed emblematico di trasformazione di una difficoltà in un’opportunità.
Paradossalmente la stessa cucina israeliana è anch’essa una cucina della migrazione in una sorta di gioco infinito di specchi e ciò sia per la gioventù dello stato ebraico e per il lunghissimo tempo trascorso dal Regno d’Israele, sia perché in esso sono progressivamente confluiti gli ebrei della diaspora provenienti da tutto il Mondo e si sono fusi con le comunità locali.
Una cucina ingiustamente minore
La maggior parte dei popoli guarda con sufficienza, se non con alterigia alla cucina dei propri migranti considerandola una sorta di tradimento delle origini.
Eppure è spesso grazie a quella cucina, ambasciatrice nel Mondo, che si realizza lo scambio tra culture diverse e che stimola la curiosità ad approfondire le preparazioni originarie.
Magari non sarà perfetta, ma il suo essere di frontiera la rende di per sé degna di rispetto.