«La donzelletta vien dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dí di festa, il petto e il crine.». (Giacomo Leopardi, Il Sabato del villaggio).
Nei versi di Giacomo Leopardi, che molti di noi avranno mandato a memoria da bambini, si riassume il legame tra i fiori e l’ornamento femminile, talmente radicato nel costume e nell’immaginario collettivo dal non far neppure immaginare un destino diverso del mazzolin di rose e viole.
Non stringe forse nervosamente tra le sue mani la sposa un grazioso bouquet?
Non erano forse un chiaro invito amoroso le camelie della signora protagonista del romanzo di Alexandre Dumas figlio?
L’omaggio floreale, nelle sue mille declinazioni, da quelle religiose alle celebrative, dalle galanti a quelle che riserviamo ai nostri defunti, è da tempo immemorabile associato alla gentilezza d’animo di chi lo fa e di chi lo riceve e quasi sempre alla donna.
E tutti sanno, anche se forse pochi li osservano rigorosamente, che esistono una grammatica dei fiori ed un rigido codice che ne regolamenta il dono.
E se invece la donzelletta leopardiana col suo fascio d’erba ed il suo mazzolin di rose e viole si fosse diretta in cucina?
I fiori eduli, cioè quelli commestibili, sono una riscoperta culinaria abbastanza recente, frutto dell’intuizione di alcuni rinomati Chef che li hanno utilizzati per decorare, meno frequentemente per arricchire, i loro piatti.
Eppure a rifletterci devono essere stati uno dei primi vegetali utilizzati dall’Umanità ancor prima della scoperta dell’agricoltura.
In epoca paleolitica l’alimentazione vegetale dell’Homo Sapiens si limitava esclusivamente a ciò che cresceva spontaneamente attorno alla sua provvisoria dimora o che poteva raccogliere nei suoi periodici spostamenti: è quindi ragionevole che accanto ai frutti, alle bacche e alle radici le raccoglitrici ricercassero anche i fiori, tra l’altro assai agevoli da vedere e da identificare.
E paradossalmente dev’essere stato proprio l’avvento dell’agricoltura a decretare il temporaneo tramonto dei fiori alimentari soppiantati dai semi, assai più facili da conservare al confronto della naturale caducità delle inflorescenze e sicuramente di minor resa nutritiva rispetto agli altri vegetali.
E così i fiori sono rimasti nell’alimentazione per lo più sotto forma di tisane, ricavate da fiori quasi sempre secchi, e di essenze: chi non ha mai utilizzato nei dolci tradizionali l’acqua di millefiori o l’estratto di fiori d’arancio?
Oppure ha preparato per sé o per i propri cari un infuso di camomilla?
Più recente per noi l’infuso di fiori di Hibiscus sabdariffa, diffuso in tutta l’Africa sub sahariana e noto a noi col nome di karkadè, che ebbe una certa popolarità nel periodo coloniale al punto da essere denominato té dell’Abissinia.
Di antichissima tradizione orientale è inoltre l’aromatizzazione del tè verde con i fiori di gelsomino, recentemente diffusasi anche in Europa.
Un discorso a parte va invece riservato allo zafferano (crocus sativus) dai mille impieghi culinari e su cui ci s’intratterrà più avanti.
La limitata possibilità di conservazione dei fiori commestibili e la loro scarsa remuneratività ne ha segnato la scomparsa dal comune mercato agricolo laddove in massima parte sopravvivono come occasionali inflorescenze di alcuni vegetali.
Fanno eccezione i fiori di zucca o di zucchina, facilmente reperibili in mazzetti nella stagione estiva, soprattutto i maschi, più grandi e carnosi e che, terminata l’impollinazione, non hanno altra utilità.
Impiegati a crudo, nelle insalate, specie se associati agli spinacini estivi, nelle frittate e nei risotti vegetali; fritti pastellati, da soli o con un delizioso ripieno di acciuga e formaggi a pasta filata, i più diffusi fiori commestibili sono sempre graditi.
E gli altri fiori eduli?
Sono in numero assai maggiore di quanto sarebbe lecito supporre.
Solo Slow Food ad esempio ne recensisce una quarantina, anche se probabilmente sono in numero addirittura maggiore.
Alcuni sono inflorescenze di erbe aromatiche ed è il caso dei fiori di aglio selvatico, aneto, basilico, salvia, rosmarino, mirto, porri, erba cipollina, finocchietto selvatico, coriandolo, cerfoglio e menta: solitamente hanno lo stesso profumo e lo stesso sapore delle foglie che normalmente si utilizzano, ma sono più delicati.
Altri sono inflorescenze di ortaggi: oltre a quelle delle diverse varietà di broccoli che spesso si rinvengono assieme agli steli e alle foglie, sono commestibili i fiori della carota, del finocchio, della rucola, della cicoria (più amari delle foglie), del ravanello e della borragine, oltre naturalmente a quelli della alla zucca e della zucchina già menzionati.
Le inflorescenze commestibili della frutta invece sono quelle di tutti gli agrumi e della pesca.
Va da sé che tutti i fiori succitati, se provenienti da coltivazioni prive di additivi chimici, possono essere consumati senza problemi.
Anche del comune cappero, che salato o sott’aceto trova largo impiego in cucina, si possono consumare i fiori: i boccioli, detti cucunci, si trovano egualmente sotto sale e sott’aceto e si possono gustare in assoluto, ad esempio come accompagnamento per l’aperitivo.
Accanto ai fiori di erbe aromatiche, frutta e ortaggi, che in sostanza ampliano la parte commestibile di vegetali che sono già utilizzati come alimenti, troviamo però un numero sorprendente di fiori di piante ornamentali alcune delle quali assai comuni.
Dente di leone, noto anche come Tarassaco, dalia, fiordaliso, garofano, il già citato gelsomino, geranio, giglio, girasole, gladiolo, iris, lavanda, lillà, magnolia, margherita, nasturzio, papavero, passiflora, primula, robinia, rosa, sambuco, tiglio, trifoglio, tulipano, verbena e le diverse famiglie di viole sono fiori commestibili, almeno per ciò che riguarda i loro petali.
Ebbene sì, a dispetto di quanto fantasticato dal buon Giacomino, il mazzolin di rose e viole avrebbe ben potuto essere riposto in dispensa e la donzelletta, sicura della sua giovanile avvenenza, invece che per ornare il petto e il crine, potrebbe averli raccolti per preparare un gustosa insalata assieme al fascio d’erbe.
Non è il caso, tuttavia, di precipitarsi dal proprio fioraio o di saccheggiare l’elegante omaggio floreale fatto recapitare dal misterioso ammiratore che si firma solo con le proprie iniziali.
A partire dagli inizi del XIX secolo, infatti, la floricoltura ornamentale si è affrancata dall’universo agricolo per diventare scienza ed arte a sé, con tutto ciò che comporta, ivi compreso l’utilizzo di particolari terreni e sostanze volti a far crescere i fiori in tutto il loro splendore difendendoli da malattie e parassiti.
Ciò vuol dire che i fiori ornamentali che si sono elencati, o quantomeno la maggioranza di essi, sono solo botanicamente commestibili, salvo ovviamente che non siano coltivati appositamente per il loro utilizzo culinario, la qual cosa sta effettivamente avvenendo, ma della quale, prima di impiegarli in cucina, è il caso di accertarsi per evitare spiacevoli inconvenienti.
La breve carrellata dei fiori eduli non può concludersi senza intrattenersi sul loro incontrastato Sovrano: lo zafferano il cui utilizzo in cucina come spezia, oltre a fini medicamentosi, cosmetici, tessili e addirittura rituali, risale agli albori della civiltà: raffigurazioni dello zafferano sono state ritrovate nelle pitture parietali micenee dell’isola di Santorini e nel Palazzo di Cnosso a Creta.
Una storia affascinante quella dello zafferano, il nome della spezia ricavata dal fiore del crocus sativus.
Arrivato ai Greci dall’Asia, probabilmente dalla Persia, e da questi fatto conoscere e apprezzare ai Romani, fu trasfigurato, nella mitologia, prima greca e poi romana, nel Mito di Croco e Smilace che si ritrova in varie versioni che trattano dell’impossibile amore del giovane Krokos per la ninfa Smilax, favorita del Dio Ermes, e della trasformazione in fiore, il Crocus, del giovane amante o di entrambi.
Sulle motivazioni di tale trasformazione, tuttavia, la narrazione si divide perché in alcune fonti la trasformazione investe solo il giovane Krokos ed è opera della vendetta divina per punirlo della sua superbia, in altre, come in Ovidio, che vi accenna nelle Metamorfosi, la trasformazione in fiori dopo il suicidio di Krokos per amore della ninfa riguarda entrambi e sarebbe un atto pietoso degli Dei per consentire agli impossibili amanti di restare uniti per l’eternità.
Ed è a questa seconda versione che certo s’ispiravano i Romani quando ponevano sulle tombe degli amanti contrastati questo fiore simbolo di amore eterno.
E sempre associato all’amore, stavolta corrisposto, umano e divino assieme, si ritrova citato lo zafferano nel Cantico dei Cantici.
La cultura ebraica, infatti, probabilmente per contaminazione con quella persiana, conosceva e apprezzava anch’essa lo zafferano.
«Sei giardino recintato, sorella mia, mia sposa, fonte chiusa, sorgente ancora sigillata. Giardino di melograni dai frutti squisiti, che odora di alchenna e nardo, nardo e zafferano, cinnammono e cannella; dove profuma l’incenso con aloe e mirra, e gli aromi più preziosi» (Cantico dei Cantici, 4, 12-14).
Con la caduta dell’Impero romano il crocus sativus continuò ad essere coltivato ed utilizzato, soprattutto a fini cosmetici e tessili, nel vicino Oriente ed in Nord Africa, in particolare nella regione sud-occidentale del Marocco, nei quali assunse il nome arabo di za῾farān, derivante dal suo originario nome persiano, poi trasposto nello spagnolo azafrán e quindi nell’italiano zafferano e lentamente tornò ad essere conosciuto anche in Europa.
Qui però la storia dello zafferano si divide perché se le specie ad uso ornamentale ed industriale trovarono nuova diffusione praticamente in tutta Europa ed in particolare in Olanda assieme ai tulipani, il recupero nell’Occidente del crocus sativus, cioè dello zafferano culinario, si deve ad un religioso, tal Domenico Santucci, il quale intorno al 1300 lo portò nella natia Navelli, nei pressi de L’Aquila, dando origine alla coltivazione in quelle terre di un prodotto eccellente, lo zafferano aquilano, conosciuto in tutto il Mondo al punto da essere citato persino in un film di animazione della Pixar: il divertentissimo e curatissimo Ratatouille che ha per protagonista un insospettabile topo Chef.
E in una frazione di Navelli, Civitaretenga, nella piccola chiesa della Madonna dell’Arco (già Madonna Rossa dello Zafferano) è venerata la Vergine dello Zafferano, protettrice dei raccolti del prezioso fiore: un dipinto di autore sconosciuto che la leggenda popolare vuole sia stato ispirato ad un pittore vagabondo da una visione notturna della Vergine e realizzato, in mancanza di altri colori, con lo zafferano trovato nella piccola Osteria adiacente alla stalla in cui era ospitato e che in seguito venne trasformata in luogo di culto.
A differenza di altri fiori, del crocus sativus, raccolto solo nel primo mattino da ottobre a novembre, si utilizzano a fini alimentari prevalentemente i pistilli (stimmi) e solo una parte di essi, quella di colore rosso: un lavoro certosino, esclusivamente manuale, da effettuare con immediatezza subito dopo la raccolta mattutina e che rende ancor più prezioso questo fiore e la spezia, lo zafferano appunto, che da esso si ricava.
In commercio si trovano sia gli stimmi, che vanno utilizzati mediante infusione in acqua, brodo o latte, sia la polvere. Gl’impieghi in cucina sono pressoché innumerevoli e vanno dal tradizionale risotto ai liquori sino alla glassatura di alcuni dolci tradizionali come il Pangiallo.
I petali, egualmente commestibili, possono essere utilizzati sia freschi sia essiccati come eleganti decorazioni, ad esempio di un tagliere di salumi, ma non apportano le stesse doti dei pistilli.
Veniamo ora ad alcune indicazioni eminentemente pratiche ad iniziare dal reperimento dei fiori eduli, sempre che non si abbia la possibilità di coltivarli magari nel proprio giardino o in terrazzo, rispettando le indicazioni degli esperti e soprattutto tenendo presenti le accortezze cui già si è accennato circa il terreno, gli antiparassitari e gli ammendanti che devono essere compatibili con l’alimentazione umana.
La progressiva diffusione dei fiori in cucina come elementi decorativi o veri e propri ingredienti ne ha agevolato il reperimento: oltre che nei mercati autenticamente contadini, si trovano con una certa frequenza nei negozi di alimenti biologici, nei banchi di frutta e verdura di alcune catene della grande distribuzione e ovviamente online avendo cura, in questo caso, di verificarne la coltivazione biologica.
I fiori devono essere freschi e non presentare difetti o marciume che, oltre a comprometterne le caratteristiche, rappresentano veri e propri rischi per la salute.
Quanto al loro impiego in cucina, va innanzitutto tenuto presente che in linea generale del fiore, specie se di dimensioni medio-grandi, vanno delicatamente eliminati il gambo, le parti verdi attorno alla corolla e il pistillo.
Lavarli o non lavarli?
In teoria i fiori non andrebbero lavati perché si rovinano facilmente, ma una buona prassi igienica non può prescindere da questa operazione da fare rigorosamente e rapidamente in acqua fredda, delicatamente, individualmente ed avendo cura di tamponare immediatamente il singolo fiore con un panno asciutto e pulito.
Come farli rendere al meglio in cucina?
Ovviamente è una questione che dipende dal gusto e dall’estro individuali, ma in generale i fiori dovrebbero essere utilizzati crudi oppure solo a seguito di una breve cottura che ne conservi anche le caratteristiche olfattive e cromatiche.
In estate il loro utilizzo ideale è nelle insalate di lattuga o di erbe spontanee alle quali conferiscono gusto e aspetto decisamente intriganti specie se accompagnati da un sapiente utilizzo dell’olio extravergine d’oliva di qualità.
Con eguali risultati piacevolmente sorprendenti possono impiegarsi nelle insalate di pasta o di altri cereali o nelle macedonie di frutta tenendo presente, tuttavia, che alcol e zuccheri sono loro nemici giurati e che pertanto converrà aggiungerli solo all’ultimo momento.
I petali di rosa, lilla, verbena e di viola, oltre che gustati nelle insalate, possono essere aggiunti a dolci al cucchiaio, semifreddi e bevande estive, così come quelli di nasturzio.
I fiori del sambuco, invece, che si raccolgono tra aprile e maggio, possono essere impiegati per arricchire pani, focacce e pancake oppure per preparare gustose frittelle di pastella dolci o salate.
Con i fiori di Tarassaco, noto anche come Dente di leone, si possono fare conserve e salse con impieghi simili a quelli dei capperi. Freschi si possono gustare fritti in pastella con acqua e farina.
Menzione a parte meritano i fiori di borragine, dal bel colore blu, facilmente reperibili assieme alle foglie della stessa borragine e con i quali impreziosire il risotto allo zafferano aggiungendoli in fase di mantecatura.
Infine la lavanda il cui utilizzo cosmetico è arcinoto, ma che riserva piacevoli sensazioni olfattive e gustative anche in cucina sempre che si tenga presente che il suo gusto è amarognolo e la sua profumazione molto persistente.
Con i fiori di lavanda freschi, o secchi normalmente reperibili in erboristeria, è possibile preparare i gustosi frollini di origine provenzale (che rappresentano una delle nostre proposte di biscotteria), oppure un’infusione a freddo in olio extravergine d’oliva, preferibilmente di una cultivar non troppo piccante, ma fruttata, nella proporzione di 1:10 tra fiori ed olio.
I fiori vanno inseriti in una garza o in un filtro da tisana affinché non si disperdano e lasciati in infusione in olio extravergine in un contenitore ermetico, al riparo dalla luce, per almeno 30 giorni.
L’olio aromatizzato che se ne ricaverà potrà essere impiegato, poche gocce alla volta, per aromatizzare pesci e carni bianche arrostiti o alla griglia, magari in associazione con una purea di cavolfiore viola bollito in poca acqua e frullato in modo da creare una vera e propria salsa alla lavanda.
Alcune gocce di questa essenza possono infine essere impiegate per dare un gusto particolare a creme e gelati.
Non c’è dunque che l’imbarazzo della scelta e non resta che dare libero sfogo al gusto e alla fantasia.
I fiori eduli regalano una nuova prospettiva non solo alla cucina, ma chissà, forse anche alla stessa grammatica del dono floreale che si arricchisce grazie ad essi di nuovi spunti.
Cibo e dono, del resto, sono un binomio pressoché indissolubile.