Di Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli dei Principi di Acquapendente, che salirà al soglio pontificio il 2 marzo del 1939 assumendo il nome di Pio XII, sono note e discusse le posizioni politiche, sia da Segretario di Stato vaticano sia da Pontefice, che tante polemiche hanno sollevato nel secondo dopoguerra soprattutto in relazione ai suoi controversi rapporti con nazifascismo.
Della sua formazione giovanile, dei suoi gusti personali, invece poco si sa dalle fonti ufficiali tutte comprensibilmente concentrate sul suo ruolo politico e religioso nel periodo più drammatico del ‘900.
La famiglia Pacelli-Graziosi
La storia familiare di Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli vede incrociarsi i destini delle famiglie Pacelli e Graziosi.
Il nonno paterno di Eugenio, Marcantonio Pacelli, proveniva da una famiglia agiata della provincia viterbese e grazie alle conoscenze familiari era approdato a Roma come avvocato rotale, come lo sarebbe diventato Filippo, il padre di Eugenio.
Durante la Repubblica Romana, Marcantonio seguì Pio IX nell’esilio di Gaeta e questa dimostrazione di fedeltà, assieme alla sua opera di intermediario nel continuare a seguire gli affari della Santa Sede nel breve periodo della Repubblica, gli valse, al ritorno del Papa a Roma, prima il ruolo di Vice Ministro degli interni dello Stato Pontificio, che avrebbe conservato sino alla presa di Roma da parte dei bersaglieri di La Marmora, poi il titolo di nobile di Acquapendente cui sarebbe seguito quello di nobile di Sant’Angelo in Vado.
Promotore della fondazione dell’Osservatore Romano, la sua lealtà allo Stato Pontificio lo spinse a rinunciare a qualsiasi titolo nobiliare italiano sino a rifiutarsi di riconoscere il nuovo Stato unitario.
A sua volta Virginia Graziosi, madre di Eugenio, veniva dalla borghesia rurale tiburtina di matrice cattolica: due fratelli di Virginia avevano indossato l’abito talare, mentre entrambe le sue sorelle avevano preso i voti.
La famiglia di Filippo Pacelli e Virginia Graziosi Pacelli prese dimora al terzo piano di palazzo Capponi Pediconi, dove nacque il terzogenito Eugenio, nell’odierna Via degli Orsini, nei pressi di quella Chiesa Nuova che era stata sede dell’oratorio di San Filippo Neri, e mentre il padre Filippo si dimostrò più aperto allo status di Roma Capitale del Regno d’Italia, pare invece che Viginia fosse più restia ad accettare la nuova realtà al punto che le persiane della casa restavano sempre chiuse in segno di lutto.
Si trasferì poi al civico 19 di via della Vetrina in un palazzetto dignitoso, ma non certo di lusso.
Eugenio crebbe in questo spicchio di Roma in cui, prima della massiccia conversione al turismo, la nobiltà e la borghesia convivevano con gli artigiani ed il proletariato urbano, con le case di tolleranza ed ragazzi di strada tanto che si dice che Donna Virginia avesse trasformato una stanza della casa a sala di ricreazione della prole, e di pochi selezionati amici, evitando contaminazioni con i giovani del quartiere.
L’educazione del giovane Eugenio
Rigida e sobria, senza sfarzo ed incline alla moderazione ed ai «fioretti», le piccole rinunce fatte per motivi religiosi: così dev’essere stata l’educazione del giovane Eugenio.
Gracile al punto da dover saltare una sessione di esami del liceo per riprendersi nella campagna viterbese, Eugenio ebbe comunque anche un’educazione laica visto che fu studente del Visconti, l’antico Collegio Romano trasformato in scuola pubblica, e quando, si dice spinto dalla madre, si decise a prendere i voti, non si allontanò troppo da casa venendo accolto, anche per la sua brillante carriera scolastica che gli aveva fatto conseguire la licenza ad honorem con una medaglia d’oro, nell’Almo Collegio Capranica, nell’omonima piazza.
Qui iniziarono a farsi sentire i dolori di stomaco che non lo avrebbero più abbandonato al punto che si narra che, ormai Papa, sarebbe stato sul punto di dimettersi temendo che lo soverchiassero impedendogli di svolgere appieno il suo alto ufficio.
Dolori che lo spinsero infine a lasciare il Collegio, il cui refettorio non doveva certo essere adatto ad una persona cagionevole di stomaco, per concludere gli studi come chierico esterno, frequentando poi, sempre da esterno, sia l’Università Gregoriana, sia il Pontificio Istituto di Sant’Apollinare, dove si laureò in teologia e in utroque iure.
Un percorso formativo che lo avrebbe portato ad intraprendere quella carriera nella Curia romana che lo avrebbe elevato, dopo la nunziatura a Monaco di Baviera, alla Segreteria di Stato e, infine, al pontificato.
La signora del sacro palazzo
A Monaco le sorti del futuro Papa s’incrociarono con quelle della bavarese Josephine Lehnert, la Suor Pascalina che lo accudirà sino alla fine, e che con precisione teutonica gestiva, assieme al guardaroba e ai suoi impegni, i suoi pasti.
C’è al riguardo un gustoso aneddoto riportato nella biografia della suora (La signora del sacro palazzo. Suor Pascalina e Pio XII) scritta da Martha Schad, in cui si narra che durante un’udienza del Papa con il Segretario di Stato americano John Foster Dulles la suora irruppe esclamando: «Santo Padre, ma lei deve mangiare!», ed il Papa, per nulla contrariato dall’interruzione, le avrebbe risposto: «Giustissimo Suor Pascalina, non voglio che la minestra si raffreddi!» concludendo, a beneficio dell’illustre ospite: «Nessuna potenza della terra potrebbe far muovere la nostra buona Suor Pascalina nemmeno di un passo, quando la minestra sta sul tavolo».
Le nascita delle fettuccine del Cardinale
In questo quadro appena tratteggiato, di un uomo complesso, colto e arguto, moderato e pieno di aspetti controversi, sobrio al punto da rinunciare, durante l’occupazione di Roma, al caffè e al riscaldamento nel suo appartamento perché dissonanti con le sofferenze anche materiali patite dalla città, s’inseriscono le fettuccine del Cardinale che a Roma sono conosciute come «fettuccine alla papalina».
A raccontarne la genesi è stato il loro autore Cesaretto Simmi, negli anni ’30 titolare del Ristorante al Colonnato in via del Mascherino, a pochi metri dal Vaticano.
Lì l’allora Cardinale Segretario di Stato Eugenio Pacelli, sfuggendo evidentemente alla rigida sorveglianza di Suor Pascalina, telefonava personalmente quando aveva necessità di accogliere a pranzo qualche illustre ospite, soprattutto straniero.
Nel corso di una di queste periodiche telefonate Pacelli chiese a Simmi, che nel tempo aveva appreso i gusti ed i problemi di stomaco del Cardinale, una pasta un po’ particolare e così Simmi pensò bene di creare una sorta di versione ingentilita della carbonara, circostanza questa che tra l’altro dovrebbe gettare una luce diversa, datandosi l’episodio negli anni ’30, su questo piatto controverso della cucina romanesca a lungo sospettato di essere nato nel secondo dopoguerra sulla falsariga degli anglosassoni uova e bacon.
Le fettuccine all’uovo preparate per l’occasione da Simmi, la cui famiglia conserva gelosamente la ricetta, prevedono infatti un soffritto, nel burro fuso, di cipolla e prosciutto crudo a dadini col quale le fettuccine si mantecano assieme a uova intere e parmigiano reggiano.
Il Cardinale pare gradì molto e fu la stessa famiglia Simmi, nel frattempo trasferitasi a Trastevere a La Cisterna, a darsi lustro dandogli il nome con cui sono conosciute, perché un Papa è certo più prestigioso di un semplice Cardinale, fosse pure il Segretario di Stato.
A ben vedere il piatto, frutto della sensibilità di Simmi, rispecchia appieno ciò che sappiamo di Pacelli.
I suoi ingredienti, per quanto negli anni ’30 burro, prosciutto crudo e parmigiano reggiano fossero per molti un lusso, non sono certo paragonabili all’opulenza dei piatti cardinalizi spesso irrisi dal Belli, né si discostano eccessivamente da quella tradizione romanesca che Pacelli, adolescente del rione Ponte e del rione Colonna, doveva aver almeno «annusato» girando tra i vicoli dove ancora regnavano le osterie.
Il fatto poi che il piatto, che alla fine è pur sempre a base di semplici fettuccine, formaggio, prosciutto e uova, fosse stato ordinato dal Cardinale non per suo diletto, essendo oltretutto debole di stomaco e sottoposto al ferreo regime alimentare di Suor Pascalina, ma per compiacere gli ospiti stranieri adusi, si presume, trattandosi per lo più di diplomatici, ai lussi delle Corti, testimonia anch’esso la frugalità di Pacelli.
E la sua anacronistica e spesso incompresa, in un periodo storico infiammato da drammatici contrasti, moderazione.